La “vite vera”: una riflessione a margine del vangelo di domenica 29 aprile.
Il passo giovanneo nella liturgia di domenica 29 aprile riporta l’immagine familiare della vite: una pianta coltivata da sempre in Palestina, così come da noi in Toscana, e in tante altre parti d’Italia e del mondo. Pur essendo diversi i panorami, e distanti le epoche storiche, la coltivazione della vite porta in sé un misto di fatica e di bellezza: o, per dir meglio, la vigna è l’immagine della bellezza rigogliosa e tuttavia composta e ordinata, ottenuta per mezzo della fatica e del sacrificio. Come ha scritto Enzo Bianchi, a commento del passo di Giovanni 15, 1-8 (www.monasterodibose.it):
«La potatura tanto necessaria è pur sempre un’operazione dolorosa per la vite, e molti tralci sono tagliati e gettati fuori della vigna, si seccano e sono destinati al fuoco…»
Non stupisce, quindi, che viti e vigneti siano presenti in letteratura a partire dai tempi di Omero e dei lirici greci fino ai nostri giorni. Un panorama particolare di vigneti che formano un disegno geometrico a perdita d’occhio è quello delle Langhe, che ha ispirato tanti passi di Cesare Pavese, fino a divenire un paesaggio mitico nella produzione dello scrittore. Ne riporto qui un breve passo, tratto dal romanzo La luna e i falò, dove la vite, pur senza mostrare alcun legame con la parola evangelica, sembra possedere una intima sacralità:
«Invece traversai Belbo, sulla passerella, e mentre andavo rimuginavo che non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore.
Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profonde appaiono una porta magica. Sotto le viti è terra rossa dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo». (Da Cesare Pavese, La luna e i falò, cap. XIX, Torino, Einaudi, 1980)
Maria Rosa Partini