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Un augurio per l’inizio dell’attività nell’ambulatorio oculistico in Mali.

E’ con emozione che pubblichiamo questa meravigliosa poesia, che ben si accosta alla Liturgia della domenica ed ancor più alla sospirata e prossima realizzazione dell’ambulatorio oculistico all’Hòpital Mali Gavardod, Bamako – Koulikoro, Mali.
Mariarosa Tabellini
E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!» (Mc 10, 51)

La tradizione letteraria ha immortalato personaggi che, privi della vista, erano però dotati della capacità interiore di vedere le cose al di là dell’apparenza sensibile: tale era Tiresia che, punito con la cecità per aver osato guardare quello che non avrebbe dovuto, era stato tuttavia compensato con il dono della divinazione; tale era Omero stesso, che la leggenda ha voluto rappresentare come un aedo cieco che vagava per le corti dei principi achei narrando le antiche storie che costituivano il deposito delle memorie e dei miti delle stirpi greche. Forse anche il cieco di cui narra il vangelo di Marco era dotato di una vista interiore privilegiata: la fede, che lo rese degno di invocare fiducioso Gesù («Rabboni, ut videam»), e di ricevere di conseguenza il miracolo della guarigione.
A noi non è concessa la capacità di fare miracoli, e il recupero della vista è possibile, in certi casi specifici, grazie ai progressi della medicina; eppure, talvolta, è la parola a compiere il prodigio di sostituirsi agli occhi: non certo la parola aggressiva e trita degli slogan imperanti in ogni campo, ma la parola che sa narrare, descrivere, evocare sottovoce, come fa, appunto, la poesia.
Desidero quindi postillare l’episodio evangelico con una semplice poesia che, pur nella marginalità cui è costretto oggi il genere poetico, illumina il miracolo che consente alle parole di rendere visibili le cose anche ai ciechi. Ne è autore Nino de Vita, uno scrittore siciliano nato vicino a Marsala, in contrada Cutusìu: questa località dà anche il titolo al libro di versi che rievoca e raccoglie piccole scene esemplari e spesso drammatiche dell’infanzia dello scrittore. La poesia parla di Martino, un «bambino che aveva gli occhi spenti», e della luna; è scritta nel dialetto di Cutusìo: qui la riporto nella versione in lingua italiana proposta dallo stesso Nino de Vita.

Martino

Parlai della luna.
Eravamo una diecina,
per terra, accovacciati,
a giro, nel giardino.

Parlai del bianco
della luna;
delle macchie nel bianco
della luna; della luce
che viene dalla luna.
Ascoltavano me
guardando la luna.
C’era Martino,
il bambino che aveva
gli occhi spenti, insieme
a noi:
stava a testa bassa,
le mani sull’erba
appena nata.

Parlai della luna,
tonda e a falce;
della mezzaluna;
del giuoco della luna
che si nasconde fra le nuvole
e riaffaccia…
E all’improvviso Martino
m’interruppe.
«È bella»
disse «la luna!»

(da Nino de Vita, Cutusìu, Mesogèa, Messina 2001)

Non escludo che l’accostamento della poesia col testo evangelico appaia forzato o peregrino: può darsi, ma, in realtà, questo breve testo vuole essere anche un augurio per l’inizio dell’attività dell’ambulatorio oculistico in Mali.
MRT

 

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