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Commento su I volontari di Bamako tornano in Italia 26 gen 2019

Mariarosa Tabellini

Caro Don Sergio,
le vostre foto dall’Africa, la fatica, i sorrisi, sono un soffio di aria pura che ci viene da lontano, a illuminare la cupezza inquinata dei nostri giorni vicini.
Mentre voi eravate laggiù, a organizzare, a collaborare, a operare con fatica ma certo con soddisfazione, noi qui abbiamo assistito sgomenti, oltre alle ormai troppo consuete tragedie del mare, a scenari di bambini tolti alle loro scuole, strappati a maestre e compagni che lamentano di non aver avuto modo nemmeno di salutarli. Deportati. Come siamo arrivati a tanto? Imbevuti di paure, ipocrisie, falsità. Lasciare che le persone scompaiano risucchiate nel cimitero del mare è forse togliere incentivo all’ingordigia degli scafisti? Impedire che dei bambini frequentino le scuole – le nostre scuole – è forse un rimedio contro la criminalità? Bruciare le povere cose di chi è costretto a una vita per strada, e lo fa con pudore e probabilmente con vergogna, è un atto di cui vantarsi? Ci dicono che è colpa della “crisi” che ha portato povertà. Ma che vuol dire? I “poveracci” non covano rabbia. Vedo piuttosto montare la rabbia e l’egoismo negli insoddisfatti, la competizione per i consumi spesso artatamente costruita, l’intolleranza non solo verso i “diversi”, ma verso tutto ciò che non rientra nel nostro limitatissimo perimetro.

Certi comportamenti, financo certi pensieri più bassi, che fino a poco fa erano motivo di imbarazzo, sono diventati una sorta di bandiera da sventolare con orgoglio.
So bene che non basta propagandare parole astratte come solidarietà, accoglienza, prescindendo dalla realtà: può essere addirittura controproducente, e ne paghiamo (tutti) lo scotto. È mancata la politica nel senso vero del termine: che non significa fomentare le bassezze, che tutti coviamo, pur di alimentare il consenso, ma proporre e realizzare alternative concrete a un modello sociale che inclina sempre più alla grettezza e all’insoddisfazione. Ma voi mostrate che il mantra “aiutiamoli a casa loro” non è un comodo slogan per simulare una sorta di ipocrita lungimiranza, sì piuttosto una concreta possibilità da mettere in pratica con umile tenacia. E anche, penso, con la consapevolezza che questa possibilità non vale per chi “casa loro” non ce l’ha o non ce l’ha più, ovvero per chi affronta consapevolmente il rischio di morire pur di fuggire da guerre o povertà (c’è chi distingue…).
La vostra dedizione ci conforta. E tuttavia non solleva noi, che qui siamo rimasti, dal senso di colpa che assale quando si pensa: perché a noi tanto privilegio? Che cosa abbiamo fatto di buono, noi, per meritare di essere nati “qui” e non “là”? Di essere noi i “salvati” e non i “sommersi”? Prendo a prestito le parole di Primo Levi, e non a caso, data la coincidenza con la Giornata della Memoria, perché davvero l’esodo, se pur tanto diverso storicamente, non è cessato, e d’altronde nemmeno l’odio razzista, pare.
Don Sergio, grazie. Grazie a tutti voi, perché ci fate vedere che esiste il mondo migliore, semplice, pulito, operoso, in cui avere fiducia.

Maria Rosa Tabellini

1 comment

  1. Pur sapendo di essere solo una goccia nel mare dell’Africa, la convinzione che ne vale sempre la pena e nonostante la stanchezza, il loro personale arricchimento di qualcosa non quantificabile ed acquisito in profondità, sarà di sprone per noi tutti, che più o meno consapevoli e grazie alle esperienze di Ivo, sua moglie ed alla perenne “missione” di Don Sergio, abbiamo dato supporto alla Onlus.
    Aiutiamoli a casa loro, é solo un modo per placare la coscienza, “qualcuno ci penserà”. Chi evoca questa frase, dovrebbe semplicemente dire cosa intende fare per aiutarli a casa loro, altrimenti, senza un progetto concreto, sarebbe opportuno non deviare il senso di colpa, che colpisce molti di noi. (R.V.)

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