PILATO PERSONAGGIO DELLA LETTERATURA
“Il Maestro e Margherita” di Michail Bulgakov è un romanzo complesso, originale e sorprendente, pubblicato postumo nel 1966, ventisei anni dopo la morte del suo autore. Ambientato in una Mosca soggetta all’occhiuto e dispotico regime sovietico, non perde lo smalto che permette alla grande letteratura di conservare il proprio fascino innalzandosi al di sopra delle contingenze storiche.
Bulgakov compie un’operazione vertiginosa di riscrittura e rielaborazione dei miti fondanti della storia dell’uomo: la lotta tra Dio e il demonio, il conflitto tra Bene e Male, il mito cristiano, cui si aggiungono le fantastiche avventure di Woland/Satana rappresentato nelle vesti di un prestigiatore-mago contornato da assistenti più simili a clowns maligni che a diavoli infernali.
Le storie continuamente si intrecciano in una fantasmagoria di invenzioni ora grottesche ora tragiche. Il Maestro del titolo sta scrivendo un romanzo sulla Passione di Gesù, che verrà stroncato dai censori della casta letteraria sovietica: egli allora, deluso, deciderà di gettare il manoscritto nella stufa, precipitando poi in un gorgo di follia. Ma stralci del romanzo sono comunque recuperati e vengono a costituire in tal modo un romanzo nel romanzo: si tratta quindi di due storie che procedono in parallelo all’interno del libro.
Questo secondo romanzo, però, non ha al centro Gesù, bensì Ponzio Pilato, definito «l’egemone».
Pilato è presentato come un uomo distrutto dall’emicrania, un solitario anaffettivo capace di provare sentimenti di calore solo per il suo cane Bangà. Gesù, che qui ha nome Yehōšua’ Ha-Nozri, ed è un filosofo vagabondo senza dimora (o almeno così pare a Pilato), viene portato davanti all’egemone, che gli chiede che cosa sia per lui la verità.
Questa è la risposta di Yehōšua’:
«La verità innanzitutto è che ti fa male la testa, e ti fa tanto male che vilmente pensi alla morte.
Non solo non hai la forza di parlare con me, ma fai persino fatica a guardarmi. E adesso senza volerlo io sono il tuo boia, il che mi addolora.
Tu non riesci a pensare a niente e sogni soltanto che arrivi il tuo cane, evidentemente l’unica creatura a cui tu sia affezionato. Ma i tuoi tormenti finiranno, il mal di testa passerà».
Così avviene. Il colloquio fra i due procede, e Pilato è turbato dal sospetto di eternità che affiora nelle parole del predicatore vagabondo e dalla sua fiducia nella bontà degli uomini. Non vorrebbe condannarlo, ma le cose vanno come sappiamo: come è raccontato nei vangeli. Yehōšua’ è condotto via e non ci sarà più nessuno a guarire i dolori tremendi di Pilato. La descrizione della passione è assai più cruda e realistica che non quella evangelica, con una variante: i gesti crudeli della spugna intrisa d’aceto e del colpo di lancia nel costato sono trasformati in gesti di misericordia: la spugna disseta, la lancia libera Gesù dalla sofferenza divenuta insopportabile.
Alla sera, Pilato si tormenta: vorrebbe che l’esecuzione non fosse mai avvenuta. L’immagine di Yehōšua’ gli è rimasta talmente impressa che lo rivede in sogno:
«Verso mezzanotte il sonno ebbe finalmente pietà dell’egemone. Sbadigliando convulsamente, il procuratore si slacciò e tolse il mantello, si sfilò la cintura che gli cingeva la tunica e il largo pugnale d’acciaio nel fodero, lo posò sulla scranna vicino al letto, si levò i sandali e si distese. Bangà subito saltò sul letto e gli si accovacciò accanto, testa contro testa, e il procuratore, posata una mano sul collo del cane, finalmente chiuse gli occhi. Solo allora si addormentò anche il cane.
Il letto era in penombra, una colonna lo riparava dalla luce lunare, ma dai gradini della terrazza al letto si stendeva un nastro di luna. E non appena il procuratore perse contatto con ciò che gli stava intorno nella realtà, subito s’incamminò per quella strada luminosa e andò dritto verso la luna. Rise addirittura di felicità nel sonno, tanto ogni cosa aveva avuto un esito meraviglioso e irripetibile su quella strada azzurra e trasparente. Camminava in compagnia di Bangà, e accanto a lui camminava il filosofo vagante. Disputavano di qualcosa di molto complesso e importante, e nessuno dei due riusciva a convincere l’altro. Non erano d’accordo su nulla, e ciò rendeva la loro disputa particolarmente interessante e inesauribile. Ovviamente l’esecuzione di quel giorno era stato un banalissimo malinteso – perché il filosofo che aveva inventato una cosa così assurda e inverosimile come la teoria che tutti gli uomini sono buoni camminava al suo fianco, di conseguenza era vivo. E, naturalmente, era assolutamente atroce anche solo pensare di poter giustiziare un uomo del genere. L’esecuzione non c’era stata! Non c’era stata! Ecco dov’era l’incanto di quel viaggio su per la scala di luna.»
(M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, trad. di E. Guercetti, Garzanti, Milano 2014)
Da Maria Rosa Tabellini Partini