Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide (Ap 7, 9)
Dall’Apocalisse di Giovanni, Dante deriva la visione della “candida rosa”, che occupa il canto XXX del Paradiso e nella quale il poema si chiuderà. La grande immagine che sorge agli occhi del poeta e nostri è l’invenzione forse più prodigiosa di tutta la Divina Commedia. La “candida rosa” è costituita dai bianchi petali che sono i corpi gloriosi dei beati – le “bianche stole”, ovvero le “vesti candide” nella rappresentazione giovannea –. Tutti i beati – ossia tutte l’umanità salvata – sono contenuti nel mirabile fiore che Beatrice mostra a Dante.
La visione nasce a poco a poco, nello svolgersi dei versi: appare prima come un fiume di luce dal quale escono faville che si posano sui fiori, quindi, inebriate dal profumo, tornano a immergersi nelle onde; poi il fiume da lineare si muta in figura circolare, come un lago immenso contornato da un “clivo” che vi si rispecchia, per poi trasformarsi in un immenso anfiteatro floreale che accoglie «quanto di noi là su fatto ha ritorno». Ciò che Dante aveva sperato come termine ultimo del suo viaggio di esule, adesso appare nella realtà: nel cielo incorporeo dell’Empireo, splendono i corpi. Dante, attraverso il miracolo della poesia, riesce a rendere realmente visibile il paradosso della fede.
…
e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.
[…]
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ’l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole!
(Dante, Paradiso XXX, 61-69, 91-129)