La nascita di Gesù nella prospettiva dolente di Giorgio Caproni
Il racconto della nascita di Gesù è patrimonio di tutti e come tale non smette di fornire spunti di riflessione per artisti e poeti anche al di fuori della prospettiva propriamente religiosa, grazie alla forte carica di umanità che si sprigiona dalla storia di quel bambino nato nel silenzio caldo e umile di una stalla, come ci è stato tramandato dai Vangeli.
Riflessa nella figura del bambino Gesù, Caproni, da agnostico tormentato qual era, riconosceva l’immagine desolata dei tanti bambini che nascono nella povertà, nel gelo e nel timore, in questa Terra guastata all’ingiustizia e dall’indifferenza.

a Valerio Volpini
Nel gelo del disamore…
senza asinello né bue…
Quanti, con le stesse sue
fragili membra, quanti
suoi simili, in tremore,
nascono ogni giorno in questa Terra guasta!…
Soli
e indifesi, non basta
a salvarli il candore
del sorriso.
La Bestia
è spietata. Spietato
l’Erode ch’è in tutti noi.
Vedi tu, che puoi
avere ascolto. Vedi
almeno tu, in nome
del piccolo Salvatore
cui, così ardentemente, credi
d’invocare per loro
un grano di carità.
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A che mai serve il pianto – posticcio – del poeta? Meno che a nulla. È soltanto fatuo orpello. È viltà.
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Due immagini spietate occupano la strofe centrale: la «Bestia», che in Caproni è frequente a indicare il male, e l’«Erode ch’è in tutti noi». Non è soltanto l’odio, ma anche (e soprattutto) l’indifferenza a renderci tutti colpevoli.
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Chi sia il destinatario lo leggiamo nella dedica apposta alla poesia, è l’amico Valerio Volpini che, a differenza di Caproni, «così ardentemente» crede, e pertanto può osare una preghiera per gli inermi e i derelitti. Perché a nulla serve, invece, il pianto del poeta, che è «posticcio», «fatuo orpello», «viltà».
….all’alba del 22 gennaio del 1990, Caproni moriva: nel «gelo della mattina», come suona il titolo di un suo lontano racconto. Sul comodino, il Purgatorio di Dante era aperto al primo canto, vv. 118-120: «Noi andavam per lo solingo piano / com’om che torna a la perduta strada / che ’nfino ad essa li pare ire invano».
(Maria Rosa Tabellini)