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POESIA DI NATALE “BORIS PASTENAK” ( Maria Rosa)

Natale 2021.

Una poesia che è come un presepio disteso ad abbracciare tutti i tempi  a venire, compreso
il nostro disorientato e ingrigito.
Aleggia su questa lirica l’atmosfera gelida dell’inverno nella steppa russa, la stessa aria gravida di neve che si respira in tante pagine del romanzo: ma forse è proprio questo freddo che rende i personaggi ancor più desiderosi del calore degli affetti.    [Maria Rosa Tabellini]


BO
RIS PASTERNAK

La stella di Natale

Era pieno inverno.
Soffiava il vento dalla steppa.
E aveva freddo il neonato nella grotta
sul pendio della collina.

L’alito del bue lo riscaldava.
Animali domestici
stavano nella grotta,
sulla culla vagava un tiepido vapore.

Scossi dalle pelli le paglie del giaciglio
e i grani di miglio,
dalle rupi guardavano
assonnati i pastori gli spazi della mezzanotte.

Lontano, la pianura sotto la neve, e il cimitero
e recinti e pietre tombali
e stanghe di carri confitte nella neve,
e sul cimitero il cielo tutto stellato.

E lì accanto, mai vista sino allora,
più modesta d’un lucignolo
alla finestrella d’un capanno,
traluceva una stella sulla strada di Betlemme.

Bruciava come un pagliaio, in disparte
dal cielo e da Dio,
come il riverbero di un incendio,
come una fattoria a fuoco e le fiamme in un granaio.

Si levava come un’infiammata bica
di paglia e di fieno
in mezzo a tutto l’universo
inquieto per quella nuova stella.

Un sempre più acceso bagliore rosseggiava
su di lei, intenso di presagio,
e accorrevano tre astrologi
all’appello dei fuochi sconosciuti.

Li seguivano cammelli che portavano doni.
E asinelli bardati, uno più piccolo
dell’altro, a passettini calavano dal monte.
E, in una strana visione dei tempi venturi,
appariva in lontananza ogni cosa che poi avvenne.
Tutti pensieri dei secoli, tutti i sogni, i mondi,
tutto il futuro delle fate, tutte le opere dei maghi,
tutti gli alberi di Natale al mondo, tutti i sogni dei bambini.

Tutto il tremolio delle candele accese, tutti i festoni,
tutta la magnificenza del variopinto luccichio…
… sempre più aspro e furioso soffiava il vento della steppa…
… tutte le mele e i globi dorati…

Una parte dello stagno era dietro gli ontani,
ma l’altra anche di là si scorgeva,
oltre i nidi dei corvi e le cime degli alberi.
E potevano distinguere i pastori
gli asini e i cammelli lungo l’argine.
“Andiamo anche noi, inchiniamoci al prodigio”,
dissero legandosi le pelli.

Camminare nella neve li aveva riscaldati.
Tracce di piedi nudi, come foglie di mica,
guidavano alla capanna per la pianura luminosa.
Contro quelle tracce, come alla fiamma d’un moccolo,
ringhiavano i cani alla luce della stella.

La notte di gelo somigliava a una fiaba:
dai monti nevosi, lungo tutto il cammino
scendeva, invisibile, qualcuno fra loro.
I cani esitavano, guardavano inquieti
E, in paurosa attesa, si stringevano ai pastori.

Per quella stessa via, per le stesse contrade
degli angeli andavano, mescolati alla folla.
L’incorporeità li rendeva invisibili,
ma a ogni passo lasciavano l’impronta d’un piede.

Una folla di popolo si accalcava presso la rupe.
Albeggiava. Apparivano i tronchi dei cedri.
E a loro, “chi siete? ” domandò Maria.
“Noi, stirpe di pastori e inviati del cielo,
siamo venuti a cantare lodi a voi due”.
“Non si può, tutti insieme. Aspettate alla soglia”.

Nella foschia di cenere, che precede il mattino,
battevano i piedi mulattieri e allevatori.
Gli appiedati imprecavano contro quelli a cavallo;
e accanto al tronco cavo dell’abbeverata
mugliavano i cammelli, scalciavano gli asini.

Albeggiava. Dalla volta celeste l’alba spazzava,
come granelli di cenere, le ultime stelle.
E della innumerevole folla solo i Magi
Maria lasciò entrare nell’apertura rocciosa.

Lui dormiva, splendente, in una mangiatoia di quercia,
come un raggio di luna dentro un albero cavo.
Invece di calde pelli di pecora,
le labbra d’un asino e le nari d’un bue.

I Magi, nell’ombra, in quel buio di stalla
sussurravano, trovando a stento le parole.
A un tratto qualcuno, nell’oscurità,
con una mano scostò un poco a sinistra
dalla mangiatoia uno dei tre Magi;
e quello si voltò: dalla soglia, come in visita,
alla Vergine guardava la stella di Natale.

(Da Boris Pasternak, Il dottor Živago, traduzione di P. Zveteremich, traduzione delle poesie di Mario Socrate, Feltrinelli, Milano 2005)

Boris Pasternak (1890-1960) scrisse un solo romanzo: Il dottor Živago, e lo scrisse nella solitudine della sua dacia presso Mosca, dove poteva preservare la sua arte dall’ingerenza dell’autorità politica. Pasternak era un uomo schivo, e la sua produzione letteraria era ben poco in sintonia con la propaganda sovietica, tant’è che la sua opera fu sempre circondata dal gelo ufficiale. A nulla valse l’eco profonda che il suo romanzo suscitò nel mondo non appena venne pubblicato da Feltrinelli nel 1957, né gli giovò il premio Nobel che gli fu conferito nel 1958: Pasternak non uscì dal suo isolamento né la casta dei letterati di regime si curò di fare ammenda della propria ottusità. Il dottor Živago è un grande romanzo in cui la tradizione narrativa russa si mescola con la poesia. Il protagonista è appunto un medico che coltiva la passione per la poesia, e La stella di Natale è uno dei ventiquattro testi poetici che compongono la silloge posta a chiusura del romanzo sotto il titolo Poesie di Jurij Živago.